Sul sito del Garante della Privacy (http://www.garanteprivacy.it/garante/doc.jsp?ID=1663787) c’è questa definizione: “È un termine inglese che evoca significati a volte mutevoli, accostabile ai concetti di “riservatezza”, “privatezza”. Ad esempio, oggi la privacy non significa soltanto diritto di essere lasciati in pace o di proteggere la propria sfera privata, ma anche il diritto di controllare l’uso e la circolazione dei propri dati personali che costituiscono il bene primario dell’attuale società dell’informazione. Il diritto alla privacy e, in particolare, alla protezione dei dati personali costituisce un diritto fondamentale delle persone, direttamente collegato alla tutela della dignità umana, come sancito anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.”
Mi sembra che possiamo sintetizzare col diritto agli affari miei, no?
Cosa ne pensano del diritto agli affari miei il CEO di Google e il creatore di Facebook?
Per Eric Schmidt “Se volete che nessuno sappia cosa fate su Internet forse è perché non avreste dovuto farlo.” Mark Zuckerberg pensa che “Le persone sono ora più a loro agio non solo nel condividere più informazioni di diverso genere, ma anche più apertamente e con più persone. Quella norma sociale [la privacy] è semplicemente qualcosa che si è evoluta nel corso del tempo.”
Cosa ne penso io? Io penso che Schmidt abbia detto una sciocchezza. Quella dichiarazione è vecchia di mesi ed è stata già ampiamente dibattuta. Aggiungo solo che non c’è niente di male a possedere un numero di telefono ed è legittimo pretendere che non finisca nelle mani di ogni call center del pianeta. E quanto all’implicazione che solo chi abbia qualcosa da nascondere desideri la privacy, sì è vero: gli oppositori del regime iraniano che facevano trapelare notizie attraverso le maglie della censura stavano violando la legge del loro paese. Non credo che sia necessario infilarsi in un discorso su ciò che è legale e ciò che è giusto.
Trovo più interessante l’affermazione di Zuckerberg. Diciamocelo: l’ha fatta per tirare acqua al suo mulino. E le ultime modifiche alla privacy policy di Facebook mostrano che per lui la privacy degli utenti non è un’esigenza, ma una suprema rottura di scatole. Però secondo me ha ragione: la privacy è una norma sociale ed è soggetta a evoluzione. Se parlate con qualcuno che ha la metà dei vostri anni, probabilmente vedrete che in linea di principio sarete d’accordo sull’esigenza di un diritto agli affari propri. Ma se poi entrate nel dettaglio potreste scoprire delle belle differenze sul cosa costituisca affari propri e sul chi possa conoscerli.
Il problema della violazione della privacy è imputato alla complessità delle operazioni necessarie per chiudere ogni accesso ai propri dati a occhi indiscreti, all’ingenuità degli utenti, ai cambiamenti nelle policy dei siti, ai maggiori canali di diffusione delle informazioni e molto spesso a una letale combinazione dei quattro elementi.
C’è un quinto fattore: le persone spiattellano in pubblico i loro dati perché non hanno interesse a tenerli privati. Ed è una scelta consapevole.
Io penso due cose. La prima in realtà l’ho già detta, quindi la ribadisco: il tipo informazioni che le persone vogliono mantenere riservato varia col trascorrere del tempo. La seconda: la privacy non è un concetto assoluto. Ci sono opinioni o azioni che non voglio sappia nessuno, altre che voglio condividere solo con gli amici, altre che posso condividere anche coi conoscenti, altre ancora che voglio rendere di pubblico dominio. Diciamo diverse aree di privacy. Qualcuno potrebbe divertirsi a tracciare i diagrammi delle aree di privacy per un gruppo di persone eterogeneo, chissà cosa verrebbe fuori.
Ora, per fare un esempio: in molti tutorial su come difendere la propria privacy online si ricorda, tra le altre cose, che gli uffici del personale cercano informazioni sulle persone che si candidano per un posto di lavoro su google e sui social network. E non vogliamo che salti fuori un’informazione imbarazzante, giusto? Giusto. Ma il problema non è tanto nell’informazione, ma nello scontro tra aree di privacy, nello scontro tra morali, se vogliamo. Nel fatto che una parte ritiene qualcosa imbarazzante, e quindi sarebbe opportuno mantenerla privata e nascondergliela, mentre l’altra no.
Mantenere il controllo sui nostri dati è importante, sempre più importante. Soprattutto in un momento come questo, in cui c’è la possibilità che le nostre idee scritte sulla nostra bacheca di Facebook diventino di proprietà di Facebook, che le informazioni che ci riguardano diventino dati da dare in pasto a software di analisi. Spiegare perché bisogna fare lo sforzo per tutelare la propria privacy è altrettanto importante.
Ma perché la conversazione sia fruttuosa bisogna parlare della stessa cosa. Altrimenti una parte non sarà interessata alla discussione. Se cercate di spiegare a qualcuno perché è importante mantenere privati dei dati che lui vuole rendere pubblici, è difficile che vi ascolti: non vedrebbe dove sta il problema.
E forse, forse, potrebbe pure avere ragione lui.
Mi domando: ha senso spiegare a un sedicenne di oggi che non dovrebbe pubblicare su Facebook dati imbarazzanti, perché potrebbero creargli problemi quando cercherà lavoro? Lui cercherà lavoro tra dieci anni e forse a valutare la sua candidatura non ci sarà una persona come me, ma una che oggi di anni ne ha venti e che ha un concetto di “imbarazzante” più vicino a quello del sedicenne che al mio.
Ha senso spiegare che è meglio mantenere il proprio numero di cellulare privato, quando cambiare numero è affare di pochi minuti? E magari è anche conveniente, grazie alle offerte dei gestori per le nuove attivazioni? E grazie ai social network basta un attimo per avvertire tutti i propri contatti del cambio?
C’è un confine tra cosa deve rimanere privato e cosa possa essere pubblico ed è un confine che si sposta. Per discutere proficuamente di privacy e della necessità della sua tutela, credo sia importante individuare dove si trova e come si sposta la linea di confine. Per parlare di argomenti che siano rilevanti per tutti i partecipanti alla conversazione, anziché insistere sulla difesa di posizioni abbandonate da tempo.
Per comprendere che, tutto sommato, alcune posizioni possono anche essere abbandonate. Per far comprendere che alcune posizioni non vanno assolutamente abbandonate.
Sull’autore del post
Andrea Nicosia è un consulente della comunicazione freelance. Un giorno ha scoperto che il lavoro che diceva di voler fare da bambino aveva un nome: copywriter. Quel giorno è stato molto felice.
Un altro giorno ha scoperto che la sua passione per i lego e per smontare e rimontare le cose, capire come funzionano e spiegarlo agli altri poteva essere la base per una professione. Anche quel giorno è stato molto felice.
Quando ha collegato le due cose ha fatto i salti di gioia. Oggi cerca di essere sempre un passo avanti e una piroetta di lato nel campo della comunicazione. Più che altro perché si diverte a usare quella formula.
E’ evidente che ha scritto lui questa presentazione, perché chiunque altro avrebbe avuto il buon gusto di evitare l’agiografia.
Un Commento
Penso che ci sia un altro fattore: il web e la diminuzione del costo di storage ha cambiato in modo radicale l’importanza del mantenere riservate le proprie comunicazioni. E le persone devono ancora prendere le misure con il nuovo stato delle cose. Quello che diciamo in pubblico ma offline raggiuge alla peggio decine di persone e sparisce in pochi giorni (verba volant..), quello che diciamo sul web raggiunge almeno centinaia di persone, ma con la giusta dose di sfortuna anche milioni.. e soprattutto rimane.